Nel 1978, il 18% della popolazione cinese abitava nelle aree urbane. Da allora, gli abitanti delle città sono aumentati al ritmo di circa l’1% all’anno e sono attualmente il 60% del totale della popolazione. Nuove infrastrutture e nuovi insediamenti hanno progressivamente cambiato il paesaggio, trasformando i diritti di proprietà, travolgendo i confini amministrativi, “mangiando” gli spazi rurali e i villaggi.
Davanti ai nostri occhi scorre il veloce e dirompente processo di urbanizzazione cinese. Capirlo non è semplice. Le categorie e i modelli che abbiamo a disposizione non servono. Ridurre l’urbanizzazione cinese all’esagerazione e al difetto porta a nascondere un cambiamento epocale che ridefinisce ruoli e relazioni, non solo dal punto di vista geoeconomico e geopolitico, ma anche dal punto di vista culturale, dell’immaginazione e delle possibilità. Un cambiamento reso ancora più acuto da questi tempi incerti, segnati dalla pandemia.
China Goes Urban propone di cambiare punto di vista, di guardare alla realtà più che inserirla in categorie e modelli prestabiliti. È un invito a ritornare a esplorare il mondo, un viaggio nella città e nell’architettura del presente e del futuro e intorno al concetto di città: un concetto apparentemente semplice, che tutti pensiamo di conoscere e di capire, ma che si frantuma nella molteplicità che caratterizza l’urbano del nostro tempo.
Tongzhou, Zhaoqing, Zhengdong e Lanzhou sono le new town che la mostra invita ad esplorare.
DUE PERCORSI LOGICI
La mostra si snoda lungo due percorsi logici.
Il primo percorso conduce a decostruire progressivamente l’idea dell’eccezionalità dell’urbanizzazione cinese. Il visitatore è infatti “accolto” in un exhibition hall, uno dei “materiali urbani” che connotano la specificità dei nuovi insediamenti in Cina in cui i developer e le amministrazioni pubbliche “mettono in scena” la città con l’obiettivo di promuovere i nuovi insediamenti sul mercato o mostrare il contributo delle amministrazioni locali al raggiungimento degli obiettivi del governo centrale, siano essi l’aumento del PIL, l’educazione al vivere urbano della popolazione che dalle campagne si sposta in città o il perseguimento di stili di vita “moderni” della classe media emergente. Questo punto di partenza permette di rassicurare i visitatori che ritrovano nella prima sala la diversità e l’esotismo normalmente associati alla città cinese. Una rassicurazione che viene poi via via smontata attraverso video e immagini, installazioni e spiegazioni che rendono le nuove urbanizzazioni cinesi più “vicine” perché conoscibili. La vita nei nuovi insediamenti è infatti una vita quotidiana, ordinaria, fatta di piccoli gesti e movimenti (andare in bicicletta, mangiare, lavorare, camminare…) in cui tutti, in ogni parte del mondo, siamo impegnati.
Al contempo, il primo percorso permette al visitatore di comprendere i cambiamenti di scala coinvolti nel “fare città”: dal singolo “materiale urbano” ci si sposta verso l’insieme dei frammenti che compongono le new town cinesi, passando per quegli spazi ibridi che non sono ancora città e non sono più campagna, per poi allargarsi ancora alla rete delle relazioni, dei flussi, degli scambi che abbracciano tutto il mondo. In questo modo, i processi di urbanizzazione in Cina entrano a far parte di quel modello di sviluppo economico e urbano che si è affermato nel corso dei secoli e che presenta limiti e contraddizioni particolarmente evidenti nell’attuale fase di incertezza dovuta all’emergenza sanitaria e alle conseguenze in ambito economico e sociale.
Il secondo percorso logico è concettualmente inverso. Il primo impatto è in questo caso spaesante: gli spazi mostrati all’inizio sono vuoti, lontani, senza vita. Progressivamente, però, gli stessi spazi si animano: le fotografie e i video avvicinano i visitatori alle persone, ai volti, ai gesti e ai movimenti. Che sono i nostri volti e i nostri movimenti.
La mostra si pone due obiettivi principali. Il primo obiettivo è discutere la lettura dominante che vede l’urbanizzazione cinese come una “eccezione”. Una lettura che si nutre del pregiudizio e della “lontananza” (dell’altro da me e dell’altrove) e che trova ampio spazio sia nei report delle istituzioni e delle organizzazioni internazionali sia nei reportage e nelle cronache giornalistiche. Per smontare tale lettura e contraddire tale percezione, utilizzeremo delle alterazioni formali nei video. Il montaggio non lineare invita infatti a una nuova attenzione, a soffermarsi, a interrogarsi, a modificare lo sguardo e cambiare continuamente il punto di vista.
Il secondo obiettivo è ampliare la conoscenza sulla città come conoscenza sul e del mondo. Il percorso espositivo è infatti pensato come un percorso di osservazione e interrogazione intorno al processo di urbanizzazione in corso in Cina, ai suoi aspetti positivi (ad esempio, la rapida diminuzione del tasso di mortalità infantile e la drastica riduzione del tasso di povertà) e ai suoi lati oscuri (ad esempio, l’incremento delle diseguaglianze a scala urbana e regionale, i problemi ecologici e l’enormità dei numeri che connotano il forte incremento della popolazione urbana e l’estensione degli insediamenti) per cogliere le caratteristiche della città contemporanea, in Cina come altrove.
I due obiettivi indicati sono perseguiti attraverso i percorsi logici prima descritti e quindi, schematicamente, (i) attraverso foto e video che, avvicinandosi progressivamente agli spazi e alle persone, rendono “normale” il processo di trasformazione in corso e (ii) attraverso installazioni, dati e infografiche che decostruiscono l’eccezionalità cinese inserendola nel processo di urbanizzazione planetaria.
I temi al centro di China Goes Urban - i processi di urbanizzazione, i frammenti urbani, le infrastrutture e il rapporto urbano/rurale – accompagnano i visitatori a esplorare l’urbanizzazione cinese e interrogarsi sui caratteri della città contemporanea.
Guardando ai numeri e alla rapidità del processo di urbanizzazione, il cambiamento in atto in Cina appare come “eccezionale” e “senza precedenti”. Il rapporto della Banca mondiale del 2014 dedicato alla Cina urbana è, a questo proposito, eloquente: ogni anno più di 16 milioni di persone si spostano verso le aree urbane; fra il 1980 e il 2010 il numero degli abitanti delle città, soprattutto di quelle più grandi, aumenta di oltre 500 milioni; entro il 2025, altri 300 milioni di abitanti delle aree rurali si trasferiranno nelle aree urbane.
All’inizio del XX secolo, il tasso di urbanizzazione cinese, cioè la percentuale di popolazione urbana sul totale della popolazione, raggiungeva a stento il 10 per cento. Una percentuale che si mantiene contenuta fino al 1978, anno in cui si avviano le riforme economiche di Deng Xiaoping. Da questa data, il tasso di urbanizzazione cresce velocemente, fino a sfiorare attualmente circa il 60 per cento. Una trasformazione veloce che, in poco più di quarant’anni, modifica nel profondo la Cina da paese rurale al paese simbolo delle cosiddette megacity, cioè le città con più di 10 milioni di abitanti; da paese povero e arretrato a uno degli attori centrali delle attuali dinamiche economiche globali.
Questi pochi dati ci fanno capire che le quantità in gioco nell’attuale processo di urbanizzazione in Cina sono impressionanti, così come impressionante è l’avanzata senza sosta delle infrastrutture e degli insediamenti. Un’espansione fisica così violenta e pervasiva che Jianfei Zhu, in un libro del 2009, scrive che la Cina è, attualmente, il più grande cantiere del mondo.
Eppure l’eccezionalità dell’urbanizzazione cinese, pur eccezionale in termini assoluti, lo è molto meno se la mettiamo in prospettiva, se la guardiamo con attenzione, se proviamo a smontare e rimontare ciò che sta dietro ai numeri e alle quantità. In Cina è tutto più grande, ma se cambiamo la lente riconosciamo sostanzialmente sempre gli stessi oggetti. L’ingresso nella cosiddetta “era urbana” di un paese che conta un miliardo e 400 milioni di persone sfida categorie e certezze, richiede di spostare il nostro punto di osservazione, di cambiare lo sguardo, di andare avanti e indietro nel tempo e nello spazio, di focalizzarci sulla Cina e di guardare fuori dalla Cina. L’Europa, ad esempio, ha un tasso di urbanizzazione di circa il 75 per cento, mentre gli Stati Uniti raggiungono una percentuale di popolazione urbana pari a circa l’82 per cento. Questi valori sono stati raggiunti nel secolo scorso, in particolare nel periodo dell’intenso sviluppo economico del secondo dopoguerra, descritto non a caso da Eric J. Hobsbawm, nel libro Il secolo breve, come una “straordinaria crescita economica e di trasformazione sociale, che probabilmente hanno modificato la società umana più profondamente di qualunque altro periodo di analoga brevità”.
Se la relazione fra sviluppo economico e sviluppo urbano è una delle costanti della storia urbana a livello mondiale, questa relazione è alacremente al lavoro anche in Cina. Dal 1978, il PIL pro-capite è aumentato di circa il 10 per cento ogni anno; l’incremento del PIL cinese si mantiene sempre decisamente al di sopra della media globale, anche negli anni più recenti in cui il rallentamento della crescita assume il segno di una “nuova normalità”. Lo sviluppo economico e il progressivo inurbamento cambiano inoltre le vite di tante persone, con la decisa diminuzione della mortalità infantile, l’incremento della popolazione che vive in abitazioni dotate di servizi come la rete dell’acqua potabile, la diffusione di elettrodomestici e di mezzi di trasporto privato.
L’urbanizzazione cinese non è però esente da problemi e contraddizioni. Se la questione ambientale non può essere ridotta (né tanto meno unicamente imputata) ai cambiamenti in atto in Cina, il boom edilizio che innerva il paesaggio di ferrovie, dighe, ponti, autostrade, gated community, grattacieli, centri commerciali, non solo nelle megacittà di Pechino, Shanghai e Guangzhou, ma anche in molte altre città di diversa dimensione e livello, richiama un incubo distopico entro un immaginario alla Blade Runner.
A scala macroregionale, gli storici divari fra gli insediamenti lungo la costa orientale, ampliatasi ormai a comprendere alcune fra le più popolose ed economicamente dinamiche città del pianeta (da Shanghai a Guangzhou e Shenzhen), e la parte occidentale del paese, dove sono localizzate alcune fra le province più povere della Cina, si sono progressivamente approfonditi. A livello locale, si acuiscono e mutano le tradizionali distinzioni fra urbano e rurale sia dal punto di vista dell’organizzazione istituzionale, sia da quello dei regimi di proprietà della terra e delle condizioni di vita della popolazione. Ma anche all’interno delle città le differenze fra la popolazione urbana de jure e la popolazione urbana de facto, che derivano dall’applicazione del sistema di registrazione della popolazione del 1958, hanno portato a un deciso incremento delle diseguaglianze e divisioni all’interno degli spazi urbani.
“Parco urbano attorno ad un lago, stazione ferroviaria della linea ad alta velocità come motore di espansione urbana, complesso abitativo per una emergente classe media, cluster industriale, centro culturale, villaggio urbano abitato da migranti, museo firmato da architetto di grido.” A un primo sguardo, le new town cinesi potrebbero essere semplicemente raccontate così: un lungo elenco di materiali urbani eterogenei e discontinui. Come le tassonomie di Borges nelle prime pagine di Le parole e le cose, sembra quasi che l’unico luogo di incontro risieda nella voce che le pronuncia, nelle pagine che le trascrivono o nello spazio di questa mostra che ne include le loro rappresentazioni. Le new town cinesi possono essere pensate come città di frammenti, una vicinanza di spazi e momenti, il cui rapporto tra l’uno e l’altro non è chiaramente definibile, e il cui insieme è impossibile inscrivere all’interno di un’unica descrizione o ipotesi interpretativa.
Questa intrinseca idea di frammentarietà non è però tipica della new town cinese. Non è il frammento a rendere i nuovi insediamenti cinesi speciali, eccezionali, unici. Anzi, con un apparente paradosso, proprio questa frammentarietà ci aiuta a comprendere la città cinese nella “città” e nel discorso sulla città. Già all’inizio del Novecento, gli studiosi della Scuola di Chicago parlavano della città come di un mosaico: ogni frammento era, in questo caso, visto come una tessera che, messa insieme alle altre, avrebbe dato origine a una straordinaria, quanto variopinta, urbanità. È però solo in anni più recenti che si superano le nostalgie e le pericolose illusioni novecentesche di ricomporre in un unicum ciò che unicum non è. Proprio sulla scia di queste considerazioni, più di venti anni fa, l’architetto e critico Oswald Mathias Ungers faceva notare come le città contemporanee non potessero essere più trattate come entità uniche e unitarie. Le città non erano e non sono, ora più che mai, un solo luogo, ma molteplici luoghi. Una visione che si contrappone radicalmente ai dettami di parte del discorso dell’architettura e dell’urbanistica che, ispirandosi a una concezione di città come oggetto d’arte o all’idea di una presunta autenticità del passato persa nel passaggio alla città industriale, ha spesso inteso le città in termini di unità, continuità e sistema. L’”eterotopia” di Michel Foucault è lì a ricordarci la discontinuità dello spazio urbano, la sua molteplicità e pluralità in cui la prossimità fisica non è sinonimo di prossimità morfologica, economica e sociale.
D’altronde, come ci viene confermato dalle new town cinesi, per osservare la città contemporanea bisogna confrontarsi con la vastità e la dilatazione dei suoi confini, con l’impossibilità di identificarne dei limiti che appaiono sempre più sfocati. Non è però solamente un cambiamento di scala, ma la dimensione stessa delle parti che compongono il tessuto della città a dilatarsi esponenzialmente fino a rendere queste monadi veri e propri microcosmi. La pianificazione e la costruzione della città per grandi blocchi, dopo aver preso piede negli Stati Uniti e trovato l’apice della sua realizzazione nelle città asiatiche, ha spostato l’attenzione verso quello che George Baird ha definito una forma di urbanesimo che guarda al suo interno, dove le strade possono essere pensate come spazi di scarto o meri tracciati atti ad accogliere differenti tipi di trasporto. Esemplificativi in tal senso sono sia i recenti sviluppi residenziali delle nuove città cinesi, i quali, spesso recintati verso l’esterno, condensano al loro interno un insieme di luoghi e funzioni atti ad accogliere i bisogni di intere comunità urbane, così come i maggiori edifici pubblici. Un chiaro esempio di questi ultimi è il nuovissimo museo di Changjiang, progettato dallo studio di architettura Vector Architects, che si pone da fuori come un’imponente massa chiusa e compatta mentre rivela al suo interno una varietà spaziale paragonabile a quelle di una piccola città.
Se autori come il critico dell’architettura Colin Rowe si sono preoccupati di cercare un modo per confrontarsi con i frammenti e ricomporli all’interno di un’immagine unitaria, il tentativo si è comunque rivelato senza successo. Questa mostra ci parla di una moltitudine di materiali urbani accettandone le contraddizioni e rivelando nuove forme spaziali e pratiche sociali. Accettare il frammento non significa rassegnarsi a una sorta di fine della città, significa piuttosto osservare un quadro dove i principali aspetti e sfaccettature dell’urbanità sono all’interno di ogni singola parte; significa guardare alle relazioni che dinamicamente si instaurano tra un luogo e un altro. Perché, in fondo, questi materiali urbani, per quanto divergenti, assumono un significato sempre diverso se visti come parti di un sistema in continua trasformazione.
Quando ci si sposta nel territorio cinese è facile che i nostri occhi, così come l’obiettivo di una fotocamera, si soffermino, riprendano, registrino grandi strutture, viadotti, aeroporti, stazioni e linee ferroviarie, reti di trasporto che si snodano entro la vastità dei territori in cui sono in atto i maggiori processi di trasformazione. Questi oggetti ingombranti non sono solamente segni, tracce fisiche e imponenti, che si poggiano su di un territorio in continua trasformazione, ma rappresentano la materializzazione di quella rete virtuale di scambi, flussi e interazioni che accompagna, guida e rende possibili i processi di urbanizzazione a diverse scale. Ne è un esempio la nuova linea dell’alta velocità cinese, la quale, con 29.000 chilometri di linea ferroviaria costruiti negli ultimi dieci anni, ha sicuramente favorito l’obiettivo politico, esplicitato nei piani quinquennali del 2006 e del 2011, di connettere tra loro quelle aree dell’entroterra cinese che fino a pochi anni fa erano state parzialmente escluse dai processi di rapida urbanizzazione. Ma gli effetti di questo grande piano infrastrutturale non coinvolgono solo l’intero territorio nazionale. Alla scala locale, le opportunità e i limiti delle grandi iniziative di infrastrutturazione diventano elementi in grado di polarizzare l’espansione delle città o delimitare confini più o meno netti tra quei lotti dedicati allo sviluppo urbano e i terreni che si mantengono a uso agricolo.
Le infrastrutture non sono però solo quelle di trasporto, non sono solamente quelle così vistose, imponenti, qualcuno direbbe “deturpanti”, che vediamo materializzarsi in ponti, viadotti, ferrovie. Il termine infrastruttura comprende anche un sotto-strato nascosto della città, una vera e propria “ville invisible”, come l’hanno chiamata Bruno Latour ed Emilie Hermant: una rete di tubi, cavi, condutture e così via che si muovono nel sottosuolo, a volte fuoriescono rompendo la superficie degli spazi, entrano nelle abitazioni riducendo i confini tra pubblico e privato, e diventando quelli che Matthew Gandy ha definito come dei veri e propri “sistemi interconnessi” per il supporto della vita umana. Spesso tenuto il più nascosto possibile, questo “vasto regno sotterraneo di servizi urbani”, per riprendere le parole di Ash Amin e Nigel Thrift, si carica di un forte valore simbolico proprio nei contesti di nuova urbanizzazione, dove opere di ingegneria infrastrutturale sono esibite, mostrate, valorizzate, per attrarre investitori e promuovere il raggiungimento di una qualche forma di innovazione, benessere e modernità.
Il XXI secolo è però caratterizzato anche dallo sviluppo di altri tipi di infrastrutture, ancora più invisibili, leggere e immateriali. Sono un ulteriore sottostrato dello sviluppo urbano, non solo in Cina ma in tutto il mondo. L’infrastrutturazione comprende infatti attualmente anche tutti quei sistemi satellitari, reti di comunicazione, sensori, microonde che hanno come nodi gli oggetti simbolo del nostro tempo: gli smartphone. Da questo punto di vista la Cina è un esempio emblematico. Oggi, in Cina, il 90 per cento degli utenti si connette a Internet usando una smartphone, e spesso per navigare in WeChat, la famosa applicazione cinese che nell’ultimo anno ha registrato 1,2 miliardi di account, rendendosi così una fondamentale infrastruttura digitale non solo per connettersi a distanza con la propria rete di contatti, ma anche per effettuare le principali transizioni finanziarie, accedere a contenuti aumentati e compiere molte altre funzioni che permettono lo svolgimento della vita quotidiana nelle nostre città, da pagare un taxi a prenotare uno spettacolo al cinema o un tavolo al ristorante.
Tutte le infrastrutture che danno vita alle new town cinesi, così come a tutte le altre aree urbanizzate del mondo, non sono però solo oggetti e dispositivi tecnologici, materiali o digitali. Esse sono anche, e forse soprattutto, strutture politiche, economiche e sociali. Pensiamo ad esempio all’infrastruttura legislativa e finanziaria che permette di definire e promuovere molte delle nuove aree di espansione urbana in Cina come “zone speciali”, si tratti delle famose Special Economic Zones che hanno dato vita all’economia di mercato negli anni ottanta del Novecento o delle nuove aree speciali di sviluppo promosse all’interno dell’ambizioso progetto della “Nuova Via della Seta” del XXI secolo. Ovviamente, le zone speciali non nascono in Cina e la loro geografia va ben al di là della Cina. I dati di UNIDO – United Nations Industrial Development Organizations – mostrano come le “zone speciali” abbiano avuto un rapido sviluppo a partire dagli anni settanta, tanto da rendere l’istituzione di queste aree, caratterizzate da una forte agevolazione fiscale, disponibilità di manodopera a basso costo, scarsa tutela dei diritti dei lavoratori e della protezione ambientale, la norma prescritta da organizzazioni e istituzioni internazionali per promuovere lo sviluppo nei paesi del Sud del mondo. Un altro esempio, in questo caso tipicamente cinese, è costituito invece dall’infrastruttura politica e sociale dell’hukou, il famoso sistema di registrazione familiare che classifica ogni individuo sulla base di una serie di parametri attribuitigli fin dalla nascita. Nel contesto di una relazione tra la città e la campagna i cui confini diventano sempre più labili e sfumati dal punto di vista fisico e insediativo, l’hukou dà origine, ancora oggi, a una distinzione netta fra ciò, o per meglio dire fra chi, è “urbano” e chi è “rurale”. Come ci fa notare Keller Easterling, in questo senso l’infrastruttura costituisce l’insieme delle “regole che governano lo spazio della vita di tutti i giorni”.
Estremamente visibili o nascoste, materiali o immateriali, fisiche o virtuali, le infrastrutture non sono comunque elementi esclusivamente tecnici, ma piuttosto insiemi compositi di tecnica, società e politica. Anche se spesso diamo per scontato la presenza delle infrastrutture, e ci accorgiamo del loro ruolo nella nostra vita solo quando non sono disponibili, non funzionano, non rispondono alle nostre necessità, esse sono alla base dell’urbanità: senza di esse, come sostiene Fran Tonkiss, non potremmo parlare di città.
La città e la campagna. Sembra facile individuarle, capire dove finisce l’una e inizia l’altra. La città è luci, grattacieli, strade, traffico, brulichio di persone… La campagna è contadini, trattori, campi coltivati, atmosfera rarefatta e sospesa.
La relazione fra città e campagna è uno dei temi più dibattuti degli studi urbani e, allo stesso tempo, uno dei temi che meno si presta a letture semplici e dicotomiche. È una relazione spesso considerata come contrapposizione tra due mondi, quello urbano e quello rurale, inevitabilmente in conflitto. Una relazione impari o, come si dice, ineguale perché la città “vince” sulla campagna. La città è il “mostro” che divora tutto ciò di autentico e vero – dalle forme dell’abitare alla produzione agli stili di vita – che è proprio della campagna.
Una visione che affonda le sue radici nel pensiero occidentale, che continua ad alimentare un immaginario nostalgico e regressivo verso un presunto passato perduto e verso la presunta “naturalità” della campagna contrapposta al pienamente artificiale della città. Quasi che la città fosse ancora cinta dalle mura e la campagna fosse ancora il contadino con la zappa sulla spalla che si dirige fischiettando a coltivare il proprio orto. Una visione che sfugge all’evidenza, tanto chiara quanto inquietante, che anche noi, esseri umani, siamo esseri naturali e siamo gli esseri naturali più infestanti del pianeta. Altro che erbacce, locuste, virus e batteri. Mike Davis, guardando alla “città di quarzo” del deserto californiano, scriveva con malcelata ironia che siamo esseri infestanti che corrono verso non si sa dove inguainati nelle nostre ridicole tenute da runner mentre i puma ci guardano sconcertati.
Certo, in Cina, città e campagna, aree urbane e aree rurali hanno poco a che vedere con le forme e le caratteristiche degli insediamenti. Città e campagna, aree urbane e aree rurali sono prima di tutto e soprattutto categorie definite dallo Stato che delimita cos’è urbano e cos’è rurale dal punto di vista normativo: ci sono due regimi di proprietà della terra (la terra urbana è di proprietà pubblica; la terra rurale di proprietà collettiva) e due regimi di cittadinanza (secondo il cosiddetto hukou, che distingue, dal 1958, i cittadini cinesi in urbani e rurali). Ma questo incasellamento normativo non aiuta a capire ciò che vediamo, non aiuta a capire dove passa, se passa da qualche parte, la distinzione fra città e campagna, fra aree urbane e aree rurali.
Le new town costruite lungo il fiume Giallo nella provincia dell’Henan sono fatte di villette e piccole piazze che mal si adattano a ospitare i trattori o a mettere a essiccare il mais; i “villaggi urbani” sono dei pezzi di campagna letteralmente circondati da grattacieli, Central Business District, superstrade e stazioni dell’alta velocità. Guardando questi spazi, guardando Zhengzhou e l’urbanizzazione lineare verso Kaifeng, guardando l’estensione di Pechino o del delta del Fiume delle Perle, la separazione fra mondo urbano e mondo rurale sfugge da ogni parte. La città è ovunque e in ogni cosa, scrivono Ash Amin e Nigel Thrift. Queste città/non città e queste campagne/non campagne, in Cina come altrove, sembrano sempre più dei camaleonti. È Ananya Roy che usa questa immagine: camaleonti urbani che si nascondono e si mimetizzano, che avanzano e si ritraggono, che appaiono laddove meno te lo aspetti.
Probabilmente la distinzione fra città e campagna, fra aree urbane e aree rurali, è chiara e netta solo nella nostra mente. Ma è una distinzione che si rompe non appena provi a guardare la realtà. Qualsiasi realtà. Guardiamo alla “diffusione urbana” nell’alta pianura del Pedemonte lombardo, all’urbanizzazione lineare lungo la Via Emilia… Perché anche da noi, nell’Italia delle “cento città” e delle metropoli piccole, città e campagna, aree urbane e aree rurali sono sempre meno chiaramente identificabili.
Fra la città e la campagna, c’è di mezzo il suburbio: quell’espansione apparentemente senza sosta di villette e capannoni, di autostrade che si intrecciano collegando fra loro centri commerciali, attività produttive, compound residenziale. Lo sprawl, la diffusione, l’immagine di una città che si “sdraia” sulla o nella campagna, che la ricopre, che serpeggia come un “essere tentacolare”, che si espande a macchia d’olio. Ci sorprende? Abbiamo nostalgia per la separazione netta e chiara fra città e campagna, fra aree rurali e aree urbane? E questo suburbano cos’è, se non un po’ di tutto, in un miscuglio indigesto spesso considerato come riprova del fallimento di ogni forma di regolazione dello spazio? Ma siamo poi sicuri che dobbiamo necessariamente delimitare, definire limiti e confini o è un nostro vizio, un vizio della nostra mente abituata a incasellare il mondo per non perdersi nella sua complessità? Delimitare è catalogare e distinguere. È l’applicazione del potere disciplinare di Michel Foucault in cui la divisione e la delimitazione programmata permettono di assegnare a ogni pezzetto di spazio, e a ogni individuo al suo interno, un ruolo certo, chiaro, predefinito. Chi non sta nei ruoli, ciò che non sta nella delimitazione definita, è, come direbbe Georges Canguilhem, patologico. Ma nella relazione fra città e campagna, e nella sempre più evidente difficoltà, anzi impossibilità, di distinguere e separare, si cela la vita che vince su qualsiasi diagramma di potere, su qualsiasi tentativo di delimitazione, su qualsiasi apparente patologia o normalità.
Che per capire qualcosa della città fosse necessario guardare fuori dalla città ce lo diceva già Max Weber nel 1921. Weber studiava l’urbanesimo medievale europeo per definire le caratteristiche della città sua contemporanea. E una delle tante cose belle e importanti che scrive Max Weber nel 1921 è che, per capire la città, bisogna guardare fuori, bisogna guardare alla campagna, perché la città e la campagna sono collegate, indissolubilmente. E questa indissolubilità è forse quello che ci fa tornare sui nostri passi e pensare che forse no, non c’è bisogno di incasellare, ma di guardare le relazioni, di capire dove dormono le persone e dove lavorano, da dove arrivano i prodotti che usiamo quotidianamente. Le batterie al litio che alimentano i nostri computer, tablet, smartphone, i cibi che mangiamo, i vestiti che indossiamo, che storia ci raccontano, che geografie disegnano? Senz’altro non geografie di distinzioni, ma geografie di intersezioni e sovrapposizioni, di scambi, di flussi. Follow the things: segui le cose. Seguendo le cose, ci rendiamo conto che, se nel periodo medievale l’hinterland di una città era costituito dalla campagna circostante, ora questo hinterland si è progressivamente esteso a comprendere potenzialmente tutto il mondo. Città e hinterland sono un unicum, indissolubile: non sono due entità in opposizione, ma parte di una “condizione urbana” che si è progressivamente estesa a comprendere, come sostiene Neil Brenner, tutto il mondo.
Un progetto di:
Politecnico di Torino
Prospekt Photographers
In collaborazione con:
Tsinghua University
Promosso da:
Fondazione Torino Musei
MAO Museo d’Arte Orientale di Torino
Main Partner:
Intesa Sanpaolo
Partner:
TRANS-URBAN-EU-CHINA
Curatela scientifica:
Michele Bonino e Francesca Governa (Politecnico di Torino)
con la collaborazione di Angelo Sampieri
Curatela artistica:
Samuele Pellecchia (Prospekt)
con la collaborazione di Francesco Merlini
Coordinamento scientifico:
Francesco Carota (Politecnico di Torino)
con la collaborazione di Maria Paola Repellino
Partner Scientifici:
Liu Jian (Tsinghua University)
con la collaborazione di Zhang Li, Fan Lu
Coordinamento e organizzazione:
Angela Benotto
Delia Malfitano
Foto e video:
Samuele Pellecchia (Prospekt)
Modelli architettonici:
Stefano Orizio
Maria Paola Repellino
Musiche:
Federico Chiari
Progetto di allestimento:
Studio BTT
Catalogo:
Skira